Arrendetevi, bisogna avere il coraggio di dire sensatamente e finalmente no ai Rolling Stones

di Arsenio Gorelli

Dentro le trame sonore e testuali di Surrender, iconica canzone dei Cheap Trick del 1978, c’è una piccola ma significativa storia boomer, che riguarda al presente tutti noi che della musica abbiamo convintamente fatto la colonna sonora della nostra vita.

Chi come lo scrivente era adolescente nel 1978 (anno della canzone) e quindi tecnicamente un boomer, senza troppo esaltarsi ne apprezzava melodia, arrangiamento, capacità di mediazione fra rock, punk e pop.

Invece i giapponesi ci fecero una vera malattia, che spinse i quattro dell’Illinois, prima a prendere tutte le distanze possibili dai nazisti loro conterranei, poi a inaugurare la fortunata serie dei “live at Budokan” (prego riascoltare gli urli delle teenager giapponesi che accompagnano tutta l’esecuzione di Surrender).

Ma c’era anche la questione del testo, che narra la relazione fra, appunto, un baby boomer dell’epoca e i suoi genitori, fra consigli e voci alzate, divisioni ma anche similitudini. Le solite menate intergenerazionali insomma E, spoiler: il voler specchiarsi in un’immagine, cosa che abitualmente fanno i genitori con i figli, è esattamente il leitmotiv di questo articolo.

L’intergenerazionalità era un tema non nuovo anche per quell’epoca, eppure molti geni attualmente in circolazione adesso sulla storia delle generazioni sentono il diritto di metterci su il copyright (a proposito: quelle prima dei boomer, a cavallo delle due guerre mondiali, si chiamano Silent e Greatest).

E tanto per chiarire, la fortuna di Happy Days non è Fonzie, ma il racconto del rapporto fra umani di differenti età.

Veniamo al punto. Non pensiamo di dire qualcosa di completamente diverso alla Monty Python o di eretico alla Giordano Bruno (per quanto a noi gli eretici piacciano: vedi Traffic Jam numero 6) sostenendo che il passaggio generazionale non sia da scongiurare, benedire, ostacolare o favorire, ma semplicemente da accettare.

Nel mondo dello sport è consuetudine pensare (e dire) che è bene che il campione lasci l’agone quando è all’apice dei risultati. Il motivo è tanto semplice quanto cinico: in questo modo lascerà un ricordo di sé alto, fulgido, non offuscato dalle pieghe dei malanni e del decadimento agonistico e fisico.

Eppure, raramente c’è chi si attiene a questo pensiero, che da molti, a parole, è condiviso, e procrastina sino all’inverosimile il suo ritiro dalle scene.

L’esempio più recente è quello di Ibra. Ma il personaggio è talmente poliedrico e sovrastrutturale che gli si perdona tutto e se ne apprezza qualsiasi sottotesto.

E il dettato del buonsenso non deve riguardare solo il campione, ma tutti quelli che fanno sport nel senso più alto del termine: quello dilettantistico.

Come ci ha insegnato Alberto Savinio con una vita da scrittore-pittore-musicista-critico-giornalista, il dilettante è colui che esprime al meglio il senso della cosa, perché etimologicamente prova diletto in ciò che fa, è aperto all’eclettismo ed è disposto a farsi divertire da più cose.

Perché il diletto è l’anticamera della conoscenza ossia del progresso dell’umanità. La stessa intelligenza artificiale è stata creata non per farci risparmiare, che è come la stiamo usando oggi, ma per aiutarci a capire e a conoscere cose nuove.

Fatto sta che nella musica i campioni durano più che nello sport. Aggrappati una macchina del tempo o a un ritratto di Dorian Gray, schiere di mostri sacri della musica rock mandano al macero quintali di testi di demografia, annullano database di dati anagrafici, depotenziano album di fotografie.

Per un Angus Young che si presenta a Reggio Emilia ancora in calzoncini corti, con i lunghi capelli bianchi, c’è un Mike Jagger costantemente in uno stato di forma che non trova descrizione in parole conosciute.

Lo avremmo coniato noi il neologismo per descriverlo, jaggery, se non fosse che esiste già: è una forma di zucchero non raffinato che si consuma in tre quarti del mondo.

A David Gilmour saremo eternamente riconoscenti, ma non abbastanza da spendere 500 euro per vederlo in concerto a Roma. Che significano una cosa sola: quanto vorremmo esserci stati anche noi a Pompei nel 1972.

Quando l’8 dicembre 1980 John Lennon fu assassinato a New York da Marc David Chapman, a Milano in testa alla classifica della chart di Radio Peter Flowers c’era la sua canzone Woman.

Sull’onda dell’emozione ci rimase per un bel po’, per poi uscire dalla classifica dall’alto. Sarebbe stato indecoroso e irrispettoso fargli vivere la decadenza della retrocessione. Ha semplicemente smesso di stare in classifica, scomparendo dalle scene e affidandoci il ricordo. E con ciò anche la responsabilità di portarlo con noi.

Smettere. Questo va fatto. Per lasciare spazio a chi sa portare la responsabilità del ricordo. Quelli dovremmo noi, insieme alle tante, brave, giovani o meno giovani tribute band, come The Musical Box dei Genesis, Big One dei Pink Floyd, Custard Pie dei Led Zeppelin. Lasciamo che siano loro a suonare quello che ci piace ascoltare e a riportarci con il pensiero a quello che eravamo.

Perciò da queste pagine lanciamo un’esortazione: arrendetevi.

Ma non la rivolgiamo agli over 70 che non vogliono smettere di suonare ed esibirsi, piuttosto a coloro che pensano imperterriti di andare ai loro concerti.

Siamo noi che dovremmo rileggere H.G Wells e Oscar Wilde: forse non abbiamo ancora compreso quello che volevano dirci.