Nata in un’età di dominio del vinile, la casa discografica Top Records ha attraversato l’era del mercato e della rivoluzione tecnologica cercando di imprimere in ogni occasione la sua impronta umana unica nel rapporto con gli artisti
testi raccolti da Bianca Amoroso
La storia di Top Records è la storia di come un’azienda può prosperare attraverso i mari scuri e turbolenti della discografia. Un susseguirsi di cambiamenti notevoli quello che va dal sistema di riproduzione analogico del vinile al supporto digitale del compact disc che, a sua volta, ha aperto le strade alla smaterializzazione dello streaming musicale. Trasformazioni che hanno plasmato e rivoluzionato l’industria musicale nel corso dei decenni ma non hanno sopraffatto Top Records, che è riuscita nell’impresa di attraversare a testa alta ogni stagione musicale grazie a una commistione di fortuna, abilità e un po’ di audacia. “Il modo di pensare alla musica e all’arte è cambiato davvero rispetto a quarantotto anni fa” afferma Guido Palma, il fondatore e general manager di Top Records, il quale prosegue asserendo: “Oggi, lo scouting, deve guardare più che alla qualità musicale, ad un insieme di altri fattori che possono contribuire o meno al successo di un artista”.
È innegabile che l’inizio dell’età digitale abbia portato non solo ad una più rapida esecuzione di molti processi, ma anche ad una nuova serie di problemi. A tal proposito riecheggiano le parole di Palma in merito al progressivo affievolimento del potere di controllo sul prodotto musicale. Sono le piattaforme streaming ad occuparsi sia della gestione del prodotto discografico sia della distribuzione musicale, impedendo alle etichette il reale controllo del prodotto. Tuttavia, Top Records non naviga in solitario; adiacente all’etichetta infatti c’è Dingo Music, il braccio editoriale che la affianca in ogni passo e che è la chiave della diversificazione che tutt’oggi fa ancora la differenza. “In un’industria in cui viene sempre meno la concezione del binomio editoria-discografia è necessario capire che solo con la loro unione si riesce a comprendere realmente il vero mercato della musica” aggiunge Guido Palma. Nonostante il susseguirsi di cambiamenti, una delle peculiarità che Top Records non ha mai perso è il contatto umano con gli artisti. “Io, come discografico di una volta, voglio conoscere l’artista, voglio vedere come si presenta, cosa ha da dire. Ritornare al contatto umano e agli incontri dal vivo è alla base di ogni cosa. Qualche anno fa, ogni mercoledì, aprivo le porte dell’ufficio a chiunque volesse venire a proporre la sua musica. Devo dire: fu un bel successo”, chiosa Palma. Guardando avanti, Top Records continua a scommettere sulla diversità e l’originalità. “Penso che l’etichetta abbia tutte le basi per crescere ancora di più, anche con lo sviluppo del nostro servizio di gestione artistica”, dice Palma. In un’epoca in cui il management delle etichette discografiche può essere fatto “perfettamente dalla cucina di casa”, Top Records dimostra che la vera professionalità e l’amore per la musica sono fattori insostituibili nel lungo periodo.
Guido Palma nasce a Napoli, in verità a Giugliano, un paesino vicino la grande città, il 28 maggio 1934. Sin da quando era ragazzo, ha iniziato ad appassionarsi alla musica. In realtà, Guido Palma nasce come musicista. Aveva un gruppo di cui era il pianista che si chiamava Guido e i Favoriti. All’epoca era molto comune che i complessi musicali accompagnassero artisti famosi nei grandi locali. E uno di quelli che Guido e i Favoriti accompagnava Fred Buongusto. Con questo gruppo, Guido ha girato prima Napoli e poi anche altre parti d’Italia. Almeno, fino a quando a Guido e i Favoriti offrirono un contratto di esibizione a Stresa. “Sei mesi all’anno per un paio d’anni”. Nel frattempo, Guido Pama si creava il suo database: molti contatti a Milano (“ad esempio in in Galleria del Corso al 4”) e numerosi autori e produttori (“come ad esempio Eros Sciorilli, Alberto Testa e tanti altri”).
Ma come si è avvicinato alla musica, Guido Palma?
“A sedici anni, non ricordo per quale occasione, mio padre mi chiese cosa volessi come regalo e allora pensai subito alla fisarmonica; ne rimase sorpreso però mi accontentò. Entro neanche un annetto iniziai a suonarla benino e sempre in quel periodo decisi di avvicinarmi anche al pianoforte. Suono fisarmonica e pianoforte, le tastiere in generale compreso ad esempio l’organo. Verso i diciotto anni iniziai ad avvicinarmi al pianoforte e a prendere lezioni private e nel giro di poco iniziai ad esibirmi come parte di gruppi in locali famosi di Napoli. Avevo un grosso impresario di Firenze che mi gestiva molto bene e mi permise di entrare a far parte di un giro di conoscenze sempre più ampio. Ad esempio, ho avuto un contratto con la Vis Radio che era uno dei gruppi discografici più forti del sud. Verso i ventisei anni decisi di lasciare la parte di orchestra e di passare al piano bar. Anche in questa occasione inizio a girare famosi locali, soprattutto in Svizzera, dove entrai in contatto con personaggi e persone molto conosciute. Conoscevo quattrocento-cinquecento brani a memoria e quindi ero agevolato dal fatto che ero quello che i locali internazionali cercavano”.
Che cosa ha studiato?
“Contemporaneamente alla mia ‘carriera’ artistica’, studiavo legge perché mio padre ci teneva al fatto che io avessi una laurea”.
Quale è stato il suo primo ruolo nella discografia?
“Negli anni Settanta decisi improvvisamente che volevo fare il discografico e così cominciai a frequentare il nord e tutti quei contatti che poi mi hanno inserito nella discografia. Quando poi la mia attività iniziò a concentrarsi a Milano, decisi di trasferirmi a Stresa. Non so bene perché, in realtà mi piaceva la zona, mi piaceva il posto ed era abbastanza comodo. Ho preferito lavorare a Milano e abitare a Stresa. I primi tempi non avevo un ufficio, mi appoggiavo presso questi signori di cui ho parlato prima (Eros Sciorilli ed altri autori e produttori) e, dopo aver conosciuto bene la zona, aprii due uffici in Galleria del Corso al civico 4. Avendo gli appoggi di queste persone di esperienza sono potuto partire più ‘tranquillamente’ a dir la verità. Ho fondato l’etichetta discografica e l’11 febbraio del 1976 sono andato a fare il deposito ufficiale di Top Records in Camera di Commercio”.
È considerato una persona fantasiosa. Il nome dell’etichetta chi lo ha pensato?
“Io e mi sono affiancato a uno dei migliori grafici dell’epoca, Tallarini, per fare il logo. Però amavo molto la discografia estera, non solo come artisti ma proprio come discografia perché io la vedevo più organizzata come industria discografica. Da noi, tranne Ladislao Sugar con la CGD e pochi altri, non c’era la grande discografia italiana, erano solo le major le migliori. Studiai molto la discografia internazionale e cominciai a frequentare molti incontri all’estero (fiere internazionali) che sono stati un’opportunità per incontrare artisti, autori e produttori. Ho fatto l’iscrizione a FIPI (Federazione Internazionale dei Produttori Italiani) e all’AFI (Associazione dei Fonografici italiani) che erano molto forti. Era raro che piccole aziende facessero l’iscrizione a queste realtà proprio perché ne facevano parte solamente le grandi società come Ricordi, Emi, Sony”.
Ieri come oggi era molto importante la distribuzione.
“Adesso un aggregatore può valere un altro e non fa la differenza. Allora il cd si doveva trovare in tutti i negozi; quindi, più che l’etichetta era indispensabile la distribuzione perché era indispensabile che il cd si trovasse in negozio per la vendita. Con il tempo, dunque, ho acquisto tanto prestigio e sono stato distribuito da tutti i maggiori distributori”.
Nel corso della sua carriera, ha avuto un tutor, un mentore?
“Non ho avuto un mentore vero e proprio però ho apprezzato tanto il modo di lavorare e di creare di Richard Branson (fondatore del Virgin Group). Una delle idee che all’epoca mi ispirò era l’idea del ‘non servono grandi uffici ma grandi idee’. Allora le nostre aziende erano fatte molto diversamente, se avessi avuto un’organizzazione di tante persone forse io avrei chiuso invece ho rischiato di portarmi avanti con questo modo di essere… moderno”.
Quando ha iniziato, quali erano le sue sfide personali?
“Poiché sono nato come artista prima che come discografico, ho cercato sempre di essere dalla parte degli artisti. Certamente però negli anni ho potuto vedere che non è sempre facile stare dalla loro parte. Se dovessi pensare a una sfida per eccellenza, direi che fu proprio quella di voler fare il discografico. Era molto difficile quando ho iniziato, le regole erano molto differenti: se non entravi nell’olimpo delle dieci-quindici etichette più conosciute era come se non esistessi. Non è come adesso che si sceglie un nome, un logo e servendosi dei social e degli aggregatori si può lavorare quasi come un’azienda qualsiasi”.
Può raccontare qualche aneddoto su artisti con cui ha lavorato e che lo hanno particolarmente colpito?
“Ricordo un pettegolezzo simpatico riguardo Françoise Hardy, cantautrice, scrittrice e attrice francese. Nel 1983 ho pubblicato in Italia l’Ep di Françoise, ‘Quelqu’un Qui S’en Va’, e avevo sfruttato l’occasione, grazie all’aiuto della promoter che lavorava per Top Records a Roma per invitarla a venire in Italia a Domenica In, programma televisivo famoso e condotto all’epoca da Pippo Baudo. Lei però mi scrisse una lettera in cui raccontava che il marito, Jacques Dutronc, era geloso e preferiva che lei non venisse in Italia”.
Qual è stato il momento che ti ha reso più orgoglioso nella tua carriera?
“Sono stati tanti, però se devo sceglierne uno forse direi nel 2013 quando ho ricevuto il premio AFI, la targa alla carriera in occasione del festival di Sanremo. Ricevere un premio alla carriera ha significato il riconoscimento ufficiale di una vita spesa nel mondo della musica, nella discografia”.