La musica è morta, lunga vita all’AI con i Dead Poets Club

Mentre il dibattito sull’intelligenza artificiale infiamma ogni settore, dalla scrittura alla pittura, la sua incursione nel regno della musica compie un balzo in avanti decisivo e carico di implicazioni. A Milano, in quel crocevia di futuro che è l’Università Bicocca, un collettivo atipico noto come Dead Poets Club si appresta a sollevare il velo su un esperimento audace: un EP interamente concepito con il supporto strutturale dell’AI, presentato in un talk che è già una dichiarazione di intenti. Non si tratta di un mero esercizio di stile, ma di un laboratorio vivente che mette in discussione le fondamenta stesse della creazione artistica, interrogandosi su dove finisca il genio umano e dove inizi l’elaborazione algoritmica. Al centro di questa esplorazione non ci sono semplici beat o melodie, ma sette grandi poesie della letteratura mondiale, trasformate in testi per voci virtuali, in un cortocircuito tra l’essenza più pura dell’espressione umana e la sua rielaborazione digitale.

Il team, un sodalizio di saperi trasversali, unisce l’esperienza musicale consolidata alla curiosità del pioniere. Fulvio Muzio, compositore e medico con un orecchio allenato nella psicoacustica; Roberto Turatti, storico producer e dj, architetto dei suoni che hanno definito un’epoca; Giovanni Favero, pioniere nell’applicazione dell’AI alla musica. Insieme, hanno guidato un processo in cui la macchina non è il compositore, ma il più sofisticato degli strumenti, un supporto alla produzione che permette di esplorare territori vocali e sonori altrimenti inaccessibili. La domanda che aleggia, tuttavia, è bruciante: in un brano costruito attorno a un cantante virtuale, dove risiede l’anima? La risposta del progetto è netta: il fulcro rimane la creatività umana, l’intenzione artistica, la scelta poetica. L’AI è il pennello, non la mano che dipinge.

Ma un esperimento del genere non può prescindere dal suo contesto giuridico e sociale. Ecco perché al talk milanese non interverranno solo musicisti, ma voci cruciali per tracciare i confini di questa nuova frontiera. L’avvocato Giorgio Tramacere affronterà il nodo scorsoio del diritto d’autore in un’epoca in cui l’autore potrebbe non essere più solo umano, mentre il musicologo e informatico Renato Caruso approfondirà la relazione simbiotica e conflittuale tra note e codice binario. La cornice accademica, con il professor Andrea Maurino a sancire la collaborazione con l’ateneo, eleva l’evento da semplice presentazione a momento di riflessione strutturata. L’obiettivo dichiarato, infatti, non è solo produrre musica, ma individuare e promuovere un utilizzo etico e consapevole di queste tecnologie straordinarie e potenzialmente disruptive nel panorama della produzione musicale professionale. Dead Poets Club si propone così come un ponte, forse necessario, tra una tradizione artistica che rischia l’irrilevanza e un futuro che, senza bussola etica, potrebbe rivelarsi sterile. Il loro primo inno, “The Fly”, è già un assaggio di questo viaggio ai confini del sonoro, un esperimento che non chiede di essere giudicato, ma compreso, perché quella che ascoltiamo potrebbe essere la prima, incerta nota di una sinfonia completamente nuova.