Mentre il conflitto mondiale si espande con una velocità vertiginosa e il sogno diplomatico di una soluzione a due stati tramonta inesorabilmente, Furio Colombo lancia un grido d’allarme che squarcia il velo di reticenza mediatica: Israele rischia l’estinzione politica. Nel suo ultimo lavoro “La fine di Israele”, il giornalista e intellettuale italiano tratteggia uno scenario geopolitico drammatico in cui lo stato ebraico appare sempre più isolato e minacciato. Colombo, già deputato e senatore, nonché docente in prestigiose università americane come Berkeley e Columbia, non usa mezzi termini nel denunciare le criticità attuali: Israele viene descritto come un’entità ricca e potente ma colpevole di occupazione, di pratiche che ricordano l’apartheid e della costruzione di un “muro della vergogna” che divide e segrega. L’accusa più profonda riguarda un coinvolgimento (in)diretto della sinistra, un tempo alleata storica, che oggi lascia Israele in balìa di alleanze provenienti “dalla parte sbagliata della storia”.
Un destino che rischia di condannare lo stato ebraico a un futuro di conflittualità permanente e isolamento internazionale. L’appello di Colombo è chiaro: senza il sostegno della sinistra mondiale, Israele è destinato a soccombere. Un monito che nasce dall’esperienza diretta dell’autore, testimone di momenti cruciali come la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’offensiva del Têt a Saigon nel 1968. La sua analisi si distingue per la capacità di distinguere i popoli dai loro leader, riconoscendo la complessità di un conflitto che non può essere ridotto a schemi manichei. L’opera si propone come un’accurata radiografia geopolitica che squarcia i veli della retorica ufficiale, offrendo una prospettiva critica e disincantata sulla crisi mediorientale. Un libro che diventa manifesto di una nuova consapevolezza, dove l’impegno intellettuale si fonde con l’analisi storica per immaginare possibili vie d’uscita dall’attuale impasse.