Non c’è più gusto – il tentato suicidio della cucina italiana

Chi sta uccidendo la gloriosa cucina italiana? La nostra ristorazione può risollevarsi dalla crisi che la sta massacrando a colpi di follie estetiche, vuoti effetti speciali, gocce e schiumette, assenza sempre più evidente di sapori veri e profondi? Se n’è parlato al Grand Hôtel Majestic già Baglioni di Bologna, in una sala affollata e attenta, alla presentazione del libro ‘Non c’è più gusto – Il tentato suicidio della cucina italiana’ scritto da Mauro Bassini e pubblicato da Minerva Edizioni. Con Beppe Tassi e con l’autore, giornalisti per una vita nel gruppo Il Resto del Carlino – La Nazione -il Giorno, ne ha discusso Edoardo Raspelli, fondatore e firma di punta della moderna critica gastronomica italiana.
L’idea del libro, ha spiegato Bassini, è nata dalla lettura di alcuni menù che elencavano piatti sconcertanti e improbabili: l’agnello crudo con le ostriche, i piselli ripieni, un limone coperto di muffa verde e riempito di crema di meringa. Nasce spontanea una domanda: come siamo potuti franare dalla gloriosa cucina di Gualtiero Marchesi, Fulvio Pierangelini, Gianfranco Vissani…a una sbornia gastronomica fatta di trovate cervellotiche, sperimentazioni incresciose, piatti bellissimi senza gusto e senz’anima? Il libro tenta un’accurata analisi che parte dalla rivoluzionaria cucina molecolare di Ferran Adrià e ne esamina l’impatto sullo scenario internazionale e su quello italiano. Fu un impatto non sempre felice, fatto di cattivi copiatori, improvvisazioni, caduta verticale del rispetto della qualità delle materie prime (da sempre un grande valore aggiunto delle nostre magnifiche cucine regionali). Edoardo Raspelli, che di Adrià scrisse sulla Stampa la prima storica stroncatura, nell’agosto del 1999 (!!!), è ancora più drastico: “Non siamo di fronte a un tentato suicidio, ma a un suicidio ostinatamente perseguito e perfettamente riuscito”. In Italia, aggiunge il critico, è ancora possibile trovare cuochi e ristoranti ottimi, ma sono eccezioni in un quadro desolante e profondamente deteriorato.
Prognosi infausta, dunque? Dopo alcuni interessanti capitoli dedicati alla morte del giornalismo gastronomico, alla patologica confusione tra seria informazione e pubblicità, al crollo di credibilità della Michelin e delle grandi guide, al fallimento economico di ristoranti di fama mondiale, Mauro Bassini va alla ricerca di qualche positivo segnale di ripartenza: l’impegno di tanti ottimi giovani usciti indenni dalla sbornia collettiva della cucina-spettacolo televisiva, la grande lezione delle trattorie tradizionali, la sperimentazione intelligente di alcuni ottimi cuochi-imprenditori che hanno capito una fondamentale lezione: non può esistere un buon ristorante che non sia in grado di far quadrare i conti.
Il libro alterna analisi e ironia con divertenti citazioni di piatti assurdi, aneddoti paradossali, testimonianze di giovanissimi e di veterani. Può essere acquistato nelle maggiori librerie e su Amazon.

“NON C’È PIÙ GUSTO-Il tentato suicidio della cucina italiana“

Il libro di Mauro Bassini si apre con L’INTERVISTA AD EDOARDO RASPELLI

“La nostra cucina? Bella senz’anima”

Edoardo Raspelli, qualcuno sostiene che la cucina contemporanea nacque con Ferran Adrià. Lei scrisse sulla Stampa una lunga recensione di El Bulli, il ristorante di Adrià, intitolandola “Ferran Adrià, 22 piatti di delusione”. Sono passati tanti anni. Riscriverebbe negli stessi termini quella recensione?
“Assolutamente sì. Non voglio fare l’eroe. Ho dato il mio giudizio, ovviamente personale, dopo aver fatto un lungo viaggio dal mio eremo di Crodo, vicino a Domodossola. La Stampa mi chiese di andare a provare la cucina di Adrià, di cui tanti giornali parlavano in termini molto elogiativi. Sono partito con la mia macchina dal Sempione, ho fatto la Torino-Savona, ne ho approfittato per mangiare da dio in Costa Azzurra e poi dai fratelli Roca a Girona. Da Adrià ricordo una sequela di piatti di estrema fantasia che non sapevano di niente, accozzaglie di ingredienti. La fantasia c’era, ma solo la fantasia”.
Eppure tanti esperti e addetti ai lavori, compreso Massimo Bottura, considerano il cuoco catalano il più grande innovatore del Novecento.
“Posso dire che da lui ho mangiato una volta sola, però di piatti ne ho assaggiati 22. Ci sarei tornato, se ne avessi avuto l’occasione. Il guaio è che quell’esperienza fu l’avvisaglia di quel che poi è successo anche in Italia. Ovvero: grande ricerca estetica, buona materia prima, ingredienti onesti, messi insieme alla… insomma, a casaccio. In due ci permettemmo di eccepire, io in modo molto duro. L’altro fu il Giuda che mi ha tradito alla Guida dell’Espresso, Vizzari. Ma lo fece in modo molto meno eclatante. Del resto, la grandezza di un cuoco e di una cucina si accompagna in genere al successo di pubblico che, nel caso di Adrià, non c’è stato. Se il tuo genio viene apprezzato, il ristorante lo riempi, mica lo chiudi”.
Beh, per anni il suo ristorante è stato pieno.
“Ma l’ha chiuso. Chiudono i giornali che non vanno bene, non quelli che funzionano”.
Non era facile far quadrare i bilanci con 60 coperti e 60 dipendenti.
“Occorre anche essere un buon imprenditore e saper fare i conti. Ma io non gli rimprovero questo. Figuriamoci, io non so fare nemmeno i conti di casa mia. Rimprovero ai giornalisti di non avere mai… Insomma, soltanto io mi sono accorto che era una cucina del cazzo, o che comunque si prestava a forti critiche?”.
Bene o male, una serie di tecniche nate in quella cucina si sono rapidamente diffuse, dai sifoni alla cottura sotto vuoto a bassa temperatura, fino all’uso dell’azoto liquido. Che cosa ha lasciato Adrià, di buono e di cattivo?
“È una brava e simpatica persona, ma francamente di buono non vedo niente. Tecniche nuove? Va bene. non posso pretendere che io o mia moglie laviamo i panni nel torrente come si faceva un secolo fa in campagna o sui Navigli. C’erano le ghiacciaie, oggi ci sono frigo e surgelatori. L’evoluzione è normale, da qualche parte arriva, ma mi preoccupano certe conseguenze. Il sottovuoto e la bassa temperatura hanno cancellato la cucina del momento. I piatti oggi sono sani, più sani che in passato, ma la materia prima non sa più di niente, lo chef non va più al mercato a fare la spesa, fa una telefonata o una mail e dai fornitori e dagli importatori arriva tutto. Nelle scuole alberghiere i ragazzi non sanno più disossare nemmeno un carré, tanto nei ristoranti o nelle cucine delle scuole arrivano le costolette di agnello già porzionate. Carni e pesci sono prodotti sempre più spesso da allevamenti mediocri. Il palato è quello che è. Così l’obiettivo dei cuochi è diventato quello che i francesi chiamano ‘épater les bourgeois’, scioccare i borghesi, stupirli. I piatti sono bellissimi, con salsine, salsette, spruzzi, baffi, tutto assolutamente inutile. E poi c’è un’altra cosa che è diventata insopportabile”.
Che cosa?
“Le chiacchiere. Quando vedo arrivare un piatto non me ne frega niente che sia fatto con 50 ingredienti che il cameriere si sente obbligato a raccontare uno per uno. Stessa cosa per i vini. Se ne chiedo uno, non mi interessa sapere quanta maturazione ha fatto sulle bucce. Una volta Riccardo Muti era a Piacenza per un concerto. In un buon ristorante, alle prese con un cameriere molto preciso nelle descrizioni dei piatti, perse le staffe e gli disse: scusi, ci porti da mangiare e la smetta di rompere i coglioni. Non vorrei arrivare a quello. Ma francamente non se ne può più”.
Quali sono, secondo lei, i cuochi che negli ultimi 40-50 anni hanno dato di più alla buona cucina?
“Conosco poco gli stranieri ma ricorderei Paul Bocuse, la sua nouvelle cuisine di fantasia e di sapori. In Italia negli anni Settanta sono esplosi cuochi che hanno fatto la storia: Gualtiero Marchesi, Ezio Santin all’Antica Osteria del Ponte di Lugagnano in provincia di Milano, Nino Bergese e Valentino Marcattilii al San Domenico di Gianluigi Morini a Imola, Georges Cogny e Franco Ilari all’Antica Osteria del Teatro a Piacenza, l’Enoteca Pinchiorri di Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri a Firenze, Gianfranco Vissani a Baschi, Fulvio Pierangelini a San Vincenzo. E poi ci sono cuochi e ristoranti grandi ancora oggi: Heinz Beck all’Hilton di Roma, la famiglia Santini al Pescatore di Canneto sull’Oglio, a quel miscuglio di Italia e Francia che è il Miramonti l’altro di Concesio, in provincia di Brescia. Di buoni ce ne sono tanti ancora adesso. È una vita che non vado da Bottura ma ricordo che ho mangiato da Dio, dopo averlo consolato al telefono perché c’era Striscia la notizia che lo prendeva per i fondelli. Faceva una cucina di fantasia, ma era accompagnata dai sapori. Purtroppo oggi, parlando in generale, nella cucina italiana c’è la fantasia ma i sapori non ci sono più”.
Secondo lei, in sintesi, che cosa è accaduto alla cucina negli ultimi 40 anni?
“La gente si muove, viaggia, prende un volo low cost e gira il mondo. Probabilmente la ristorazione ha paura di perdere i curiosi giramondo, dimenticando che, se vado a vedere il Louvre, ci vado perché c’è la Gioconda. Se la Gioconda fosse anche a San Pietroburgo, a Brera e agli Uffizi, io che ci vado a fare a Parigi? Per Pasolini, se mi è consentito l’accostamento, le tradizioni erano i dialetti. Per me sono i piatti che mi raccontano un territorio. Se vado ad Ancona voglio il brodetto alla marchigiana, se vado a Bologna voglio i tortellini, anche i tortellini, magari con un bollito misto. A Milano voglio il risotto alla milanese con l’ossobuco, col midollo, perché se non c’è il midollo non è un risotto alla milanese, è un risotto allo zafferano e basta. Tutto questo presuppone una conoscenza, non una sapienza, della nostra tradizione che è un grande valore. Mi va bene la fantasia, la novità, la diversità, ma a quel maître che mi esalta il valore del fagiolo kurunzu, coltivato dalla signora Mariella sulla collina di casa sua chissà dove, ricorderei che in Italia abbiamo i fagioli di Lamon e i borlotti, chi se ne frega del fagiolo kurunzu?”.
Parlando di cucina, ci sono parole o cose che le suscitano un particolare sconforto?
“Certe espressioni tecniche. Fumo di, aria di, polvere di… Terribile. La mousse mi va bene. Anche la maionese è una mousse. Ma aria di…non si può sentire. Nei menù i piatti sembrano film di Lina Wertmuller. Accetto anche i nomi di fantasia se poi arriva un buon piatto. Non succede spesso”.
In questi decenni difficili, che ruolo hanno avuto l’informazione e la critica gastronomica?
“La cosa più negativa è leggere dotte critiche gastronomiche di sprovveduti, senza alcuna preparazione professionale. Non parliamo poi di TripAdvisor. Scrivo recensioni, ma ho fatto un esame professionale di giornalista che mi ha insegnato certe regole del codice penale, mi ha insegnato la differenza tra critica e diffamazione, tra severità e ingiuria. Oggi chiunque può dare pareri e li dà, soprattutto sui social. È disarmante. Per di più, le guide ai ristoranti sono sostanzialmente sparite. La Michelin cartacea è passata da 3000 alberghi a 600 alberghi a zero alberghi. Nessuno l’ha scritto. Ho scoperto una trattoria che sulla Michelin aveva una recensione perfetta, ma quella recensione non è cambiata nemmeno di una virgola per 19 anni. Quando l’ho scritto, hanno tolto la trattoria dalla guida. Però…”
Però?
“Però sono italiano, amo l’Italia. Ho imparato a memoria il libro Cuore quand’ero piccolo e me lo ricordo ancora. Vedo il mio Paese danneggiato, distrutto, vedo le strade a pezzi, però lo amo. E sono convinto che la gente venga in Italia per i panorami, i monumenti, i musei, per l’assortimento dei vini e per la cucina. Non dobbiamo cucinare solo ossobuco e tortellini, però dobbiamo continuare a fare queste cose e a farle bene”.
Sono comunque anni durissimi. Si fa fatica a capire da che parte si deve andare. Secondo lei come si può ripartire nell’alta cucina, o in una buona cucina non necessariamente alta?
“Mi va benissimo la cucina di fantasia. Anche l’accostamento dolce-salato, che oggi va per la maggiore, in qualche caso è assolutamente accettabile. Ma con tutti gli ottimi burri italiani, che bisogno c’è di usare il burro francese? Capivo il dilagare dei vini francesi quando i nostri vini erano complessivamente modesti, ma oggi no. Se noi compriamo formaggi italiani d’alpeggio diamo la possibilità ai nostri produttori di rimanere in montagna, di mantenere e difendere il territorio. Attraverso la cucina si garantisce anche la salubrità e la persistenza di un buon territorio. Tutto si tiene, tutto è collegato: turismo, attività economiche, qualità, ambiente”.
Come sono cambiati i clienti dei ristoranti negli ultimi 30 o 40 anni?
“C’è più attenzione, più conoscenza. Anche più arroganza, ma pazienza. Il Covid e le guerre si sono fatti sentire. Per molti, il Covid ha portato a una contrazione dei guadagni, a una minore capacità di spesa. I menù di tanti ristoranti si sono ridotti: tre antipasti, tre primi, tre secondi. Però accadono cose strane. Ero ad Acqualagna per un evento. Mi fermo a cena in un ristorante importante. Domenica sera, autunno mite, locale vuoto, due tavoli da due e basta. Prezzi astronomici. Quattro gamberetti, quattro, in una salsina costavano 60 euro. Certo, i problemi sono tanti, a partire dalla difficoltà di trovare personale valido. Ma spesso manca lo spirito di servizio”.
In un quadro così complicato, che cosa ci può indurre a essere fiduciosi sul futuro della nostra cucina?
“Io non sono mica tanto fiducioso. Mi sembra di essere vox clamantis in deserto. Mi spiace dirlo, non sono per niente ottimista. Nelle nuove leve della critica gastronomica vedo solo dei chiacchieroni, magari simpatici ma senza esperienza, troppo spesso gratuitamente ospiti di ristoratori dei quali ovviamente parleranno e scriveranno benissimo. La commistione tra pubblicità a pagamento e informazione è sempre più oscena. Sfogli un giornale o vai su internet e ormai non sai più se una notizia è vera o falsa, genuina o pagata. Dilaga la marchetta. Ho qui davanti a me un libro, ‘Le ricette regionali italiane’ di Anna Gosetti Della Salda, una signora morta nel 2017 a 101 anni, grande protagonista della rivista Cucina Italiana. Ogni ricetta veniva provata da un cuoco. Il libro che ne ha ricavato, arrivato a una ventina di edizioni, è il risultato del lavoro e della passione di una vita. È il nostro patrimonio, è il nostro dna, siamo noi. Con tutto il rispetto per quelli che ci vengono a trovare dall’estero con la curiosità di conoscere la nostra buona cucina”.