Schiavitù digitale: la morte della creatività

di Sebastian Zdrojewski

In principio era Internet, uno scatolo che urlava come un posseduto e che, talvolta si collegava a qeusto nuovo universo digitale che oggi usiamo costantemente anche per andare in bagno (per fare foto, si intende). Bolla di inizio millennio, quella delle “dot-com” in cui un banner animato sulla home page di Yahoo! costava centinaia di migliaia di dollari al giorno, in cui tutti dovevano avere un sito perché l’e-commerce era la via.

Poi ci sono stati i vari Napster, Kazaa, eMule, WinMX: chiunque abbia sentito almeno nominare uno di questi nomi ricorda la difficoltà e i tramuni subiti nel riuscire a trovare il titolo “XXX” giusto (quello con Vin Diesel). Tralasciando i vari forum e “portali” nasce con MySpace, che dà origine – per dimensioni – al primo social network per i “nerd” che lo utilizzano, offrendo (paradossalmente) quello che ancora oggi non si può fare: una pagina personale con la propria colonna sonora.

Poi arrivò Apple, con il suo rivoluzionario dispositivo, l’iPhone che ha cambiato il modo in cui interagiamo con le comunicazioni, con gli altri. Un impatto così importante che ha cambiato persino la gestualità tra generazioni: scattare una foto, fare una telefonata, riattaccare. Chi si ricorda il numero di telefono di qualcuno? No dai, seriamente.

Ecco quindi che arrivano le App: Instagram, Facebook, Whatsapp, Spotify.

Il modo in cui interagiamo con il mondo è cambiato, non c’è più il Web, ci sono le app.

Vuoi ascoltare musica? C’è un’app. La spesa? C’è un’app. Internet banking: app. Vuoi entrare al cesso? C’è un’app anche per quello.

È cambiato anche il modo in cui i contenuti vengono creati: chiunque può registrare un video di alta qualità, montarlo su un telefono o un tablet. Ecco che chiunque, letteralmente, diventa Creator. Il numero di fotografie caricate online subisce un’impennata grazie ad Instagram, diventano milioni ogni mese. Lo stesso accade con i “tuber”, che prendono il posto dei DJ della fine del millennio precedente, diventa un lavoro (anche se, in Italia, non è riconosciuto come tale), musicisti, video maker.

La quantità di contenuti aumenta vertiginosamente, tutti possono fare tutto, letteralmente.

E lo fanno.

Il “web” viene inondato da una quantità di materiale umanamente inconcepibile per quantità, emergere in questo mare magnum di contenuti è come affrontare la tempesta perfetta a bordo di un gommone. C’è chi ci riesce, c’è chi non ce la fa, e arranca nel disperato tentativo di fare qualcosa di nuovo. C’è chi ci prova, chi sbaglia nel tentativo di cambiare e migliorare, di fare le cose diversamente, ma appena ci prova ecco che una massa isterica di “copioni” si appropria del format, del contenuto, e inizia a produrre industrialmente quel formato, monetizzandolo senza pietà.

L’originalità ha un costo: quello di essere originale.

I “Sette Mari” delle piattaforme “User Generated Content” sono in realtà dominati dai rispettivi pirati, quelli veri: i consigli di amministrazione delle piattaforme stesse.

Prima con la promessa di offrire luoghi in cui navigare liberamente, rendendo sempre più difficile la condivisione della creatività. Poi iniziando a limitare il movimento, con “regole della community” in cui diventa sempre più difficile districarsi: inizia un vero e proprio periodo di censura, velata dietro un manto di perbenismo legalese che tutelava i pirati. Ecco così, che grazie alla propria creatività, i “Creator” riescono a trovare nuovi escamotage per sopravvivere, per districarsi in nei meandri di regole scritte ma non dette, tra follower fasulli e robot: per condividere la propria creatività, e crescere.

Poi arriva il 2022, e l’atto di pirateria finale viene reso pubblico.

Acclamato da drogati di dopamina in crisi di astitenza dal botto degli NFT, un branco di zombie tecno-dipendenti, investitori affetti da sindrome maniaco-depressive e un pubblico totalmente intontito dalla pubblicità, ecco che arriva il Dio creato dall’umanità stessa:

Intelligenza Artificiale Generativa.

Dopo aver fagocitato di nascosto, per anni, i contenuti artistici caricati dai propri utenti per allenare i propri algoritmi, i pirati delle piattaforme si levano sui podi delle conferenze tecnologiche più importanti del mondo (economico) moderno, autoproclamandosi oratori e pastori dell’era moderna, portavoce di un Dio di silicio e corrente.

E in quanto Dio, onnipotente e privo dei limiti umani di morale ed etica, le IA generative vomitano nuovi contenuti e nuovi prodotti “artistici”: simulazioni statistiche di ciò con cui sono stati ammaestrati, più che istruiti.

Interessanti, indubbiamente, da un punto di vista concettuale, eppure piatte, prive di emozione, prive di significato.

E la nuova sfida dei creativi, degli artisti, dei musicisti, diventa una crociata contro un dio spietato e privo di morale (ovvero con la stessa morale dei pirati che lo hanno creato). Una divinità instancabile, che può continuare a rigurgitare “opere” a ritmi disumani, divini per rimanere in tema, sommergendo il mare con il risultato delle proprie allucinazioni.

Il pubblico generale, con la vista appannata da cartelloni pubblicitari e popup tridimensionali sui propri smart-phone, smart-glasses, smart-watch con indosso mutande-smart, si trova in spiaggia, in attesa di essere travolto dallo tsunami di pattume-cibernetico. Uno tsunami che sconvolgerà la percezione delle persone sulle emozioni, sulla capacità di provare empatia e sentimenti. Uno tsunami che digitalizzerà il nostro pensiero, convertendolo in uni e zeri, numeri, e il nostro metro di giudizio non sarà più dire “questa cosa mi ha emozionato”, bensì prendere per quello che sarà l’ineluttabile realtà dei fatti: la parola di Dio sarà assoluta.

Ciò non cambierà il fatto che quella divinità, alle proprie spalle, abbia la bandiera di un pirata.